Inno al post-lockdown che verrà

Un giorno (anche) questa pandemia finirà. E così pure tutti i lockdown ad essa collegati. La vita frenetica ci riattanaglierà, ricominceremo a correre su e giù (e non solo per scappare di casa), torneremo a viaggiare, abbracciare, toccare, ballare, sudare perfino – ed a farlo tutti assieme.

Quel giorno che arriva, arriverà un giorno.

Nel frattempo, penso all’inno perfetto per il momento in cui il lockdown non ci sarà. E non avrò più paura ad abbracciare mamma e papà, quando di soppiatto e senza dirlo a troppi sgattaiolo via in aereo e torno a Roma.

L’inno di quel giorno lo immagino così. Come una fronda di stormi che volando multiforme inneggia, muovendosi allegra e libera sul cielo e gli alberi della mia città preferita.


Fronte sulle rive lontane,
si risveglia la sete
nel mattino trascinato dagli alberi.
Del primo giorno che si perde nel sale,
risvegliata la sete,
sulla riva tornerà corpo vivo fra gli alberi.

Per stendermi al sole, per stendermi al sole

Quando sulla riva verrai,
quando la burrasca al largo sparirà
col mattino fra gli alberi,
del primo giorno che si perde nel sale,
risvegliata la sete,
sulla riva tornerà corpo vivo fra gli alberi.

Per stendermi al sole
Rimane il pianto e si abbandonano gli occhi asciugati dal sale.
Per stendermi al sole
Rimane il pianto e si abbandonano gli occhi sul profilo degli alberi.

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Domani. Dopodomani. E dopodomani l’altro pure.

Finisce. Quest’anno finisce. Curioso dare così tanta importanza ad un evento (il Capodanno) che, in fin dei conti, altro non è che mera convenzione. Culture diverse celebrano questo momento in giorni diversi, con nomi diversi, con diverse cose che finiscono, e diverse altre che cominciano.

Per noi, per me, il Capodanno cade il primo giorno del calendario gregoriano. Il primo di gennaio.

E l’ultimo giorno dell’anno è il 31 di dicembre.

Dicembre. Il mio mese preferito. Il natale, il mio compleanno, le celebrazioni per la fine dell’anno vecchio, e per l’anno nuovo che si affaccia fresco fresco e mai usato, tutto da scartare.

E la famiglia, e gli amici. E l’amore, se ci sta, quando ci sta (quest’anno e, mi auguro per un bel po’ a venire, per me ci sta).

Quest’anno però, quest’anno che oggi finisce, non mi (ci) ha dato nulla di tutto ciò. Aerei bloccati, mascherine sul viso fisse a nascondere facce sorrisi e batteri, distanze ormai lunghissime e incolmabili che fanno sentire tutti i limiti di una tecnologia che sì, ti avvicina, ma che no, non ti fa toccare.

Toccarsi. Questo è stato l’anno che ci ha tolto il gusto di toccarci. Degli abbracci e delle strette di mano, dei baci sulle guance, delle metropolitane d’inverno calde di gente tutta pressata, della semplice vicinanza di quelli che dovrebbero di natura essere e stare vicini. E invece no.

E invece no. Questo è stato l’anno dell’“e invece no”. Dovevo andare in vacanza, e invece no. Dovevo andare a cena fuori, e invece no. Dovevo andare a ballare, al museo, a un appuntamento, dal parrucchiere, a farmi la ceretta, a bermi una cosa, a farmi una passeggiata, a trovare mia zia, o al funerale di mia zia… E invece no.

London May 2020
Piccadily Circus, Londra. Maggio 2020
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Gabriella Ferri – Cose che ho imparato durante la pandemia

Che sono molto più consumista di quanto non pensassi. Che siamo tutti molto più consumisti di quanto non pensassimo.
Che la carta igienica può valere più dell’oro. E che il bidet vale ancora di più.
E che paese che vai, usanze che trovi, allora se non è carta igienica è la pasta. A meno che non siano le penne non rigate.
Quelle a loro volta valgono come l’ibuprofene in Inghilterra in periodo di coronavirus (scritto così tuttoattaccato).

Ho imparato che la gente è deficiente. Anzi, no – quello lo sapevo già (però ora lo so di più).
sheep
Ho imparato che le pandemie si combattono solo in un modo (escludendo le bombe H, che probabilmente non sono un modo davvero…?) – una sanità pubblica veramente ben finanziata. E con la censura dei (social) media.

Ho scoperto che sono viziata, per aver sempre dato assolutamente per scontata la mia ed altrui libertà di movimento e di viaggiare, per averla considerata come un datum e non un dono acquisito. Come il voto alle donne. Ma quello l’ho sempre saputo.
Ho scoperto che l’Europa unita è una cosa talmente bella, bellissima che quando i confini vengono chiusi a tutti se non alle merci, è l’aria che manca. E la terra sotto I piedi.
Perché vivo su un’isola e le isole si sa, galleggiano mica stanno.
Che la salute è sacra più che mai. E che ammalarsi può diventare un lusso, o un incubo da temere (perché non si sa se ti puoi curare).

Mi sono ricordata dell’importanza degli abbracci. E dei sorrisi agli sconosciuti. Perché quanto porti una mascherina in faccia non si vede che stai sorridendo. E allora non si vede chi sono. Perché io sono il mio sorriso (e pure questo lo sapevo già).

Ho scoperto come è essere bloccati in un paese che non è il tuo.
Ho pure scoperto che ti possono mancare routine assurde come il commute la mattina, e stare stretti, appicciati sulla metro, le madonne tirate perché la district line è lenta e perché gli inglesi non sanno come stringersi sui vagoni (vedessero la linea B in orario di punta a Termini quando devi andare in direzione Rebibbia e non Ionio).
Ho scoperto che la gente non sa come lavarsi le mani, o anzi che proprio non se le lavava. Visto che ora che le persone fanno attenzione a lavare a modo quelle due preziose estremità ditate, allora il sapone non si trova più in commercio.
Ho scoperto che la tecnologia è fighissima, e meno male che ci sono i social e Skype e pure Zoom. Ma che giuro non li sopporto già più.

Ho capito ancora di più quanto io sia fortunata, anzi fortunatissima.
Perché posso lavorare da casa
Perché non mi sono ancora ammalata
Perché lavoro per una multinazionale non cattivissima che mi dà medico di base privato gratis
E pure l’assicurazione sanitaria
Perché ho una casa mia e grande e posso permettermi di comprarmi quello che mi pare e serve. Senza preoccuparmi di non arrivare a fine mese poi.

E che pure se ho i soldi per arrivare a fine mese, ecco pure quelli, in fase di pandemia e in caso di esplosione di inettitudine e imbecillità generale, non servono a niente. Perché il cibo finisce per giorni e settimane, i negozi online finiscono i prodotti e beni, e quasi inizi a temere non ti resti altro che il mercato nero.
Ho scoperto che in fin dei conti forse avevano ragione, ed io avevo torto marcio, quelli che urlavano la morte del retail e annunciavano la fine dei negozi tradizionali, W l’ecommerce, Urrà per il commercio online.
Anche se poi mica tanto torto avevo, visto che non trovi uno slot su Ocado manco a morire….

E che, a proposito di morire, muore tanta brava gente, tanti poveracci che si ammalano per lavorare e per aiutare gli altri, ma chi deve morire, oh quelli non muoiono davvero mai.
E non faccio nomi, per essere politicamente corretta e perché la morte non si augura mai.
Ma ‘nbotto de cortellate, quelle sì, sempre.

Ogni volta che lascio Roma (Céline)

Arrivò il momento della partenza. Andammo una sera verso la stazione un po’ prima dell’ora in cui tornava nella casa. In giornata ero andato a salutare Robinson. Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. Sulla banchina della stazione, aspettammo il treno con Molly, passarono degli uomini che fecero finta di non conoscerla, ma bisbigliarono delle cose.

“Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quel che hai voglia di fare! Ecco quel che importa… È solo questo che conta…”

Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini.

È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.

Sono passati degli anni da quella partenza e poi ancora anni… Ho scritto spesso a Detroit e poi altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai ricevuto risposta.

Il casotto è chiuso adesso. È tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanta della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e per almeno vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.

Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America.

Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte. Corbaccio (Milano, 2012)

Palazzo della civiltà del lavoro, Roma

Labyrinth (of love bubbles)

There is always a time when people learn the lesson.
To drive, not to fall, when to stop, when to push.

Some of them, learn it the hard way. Some others, how lucky!, learn it the “soft” way instead.
I find myself belonging to the former group of “gifted” ones, I reckon.

Like when I learnt how to keep a secret – I was seventeen or so, when Zoe told me about that special, tell-no-one thing. You know, one those teenager-y OMG such a secret to keep and share only with the most trustworthy ones.
But I told someone. Just one person, my best friend back then. With the ask “tell no one” (as I had done instead).
Few weeks in, Zoe tested me, and found out I couldn’t hold my mouth nor her secret.
It took me more than a year to gain her trust back.

Or like that only time I ever allowed myself to live in a love bubble.
Forgetful about the world and friends, only focused on my sweet, tender, hot and sexy, all-embracing and all-devouring love…
Oh I was so foolish and fooled, so busy with and in it, that I became boring – I don’t think I’ve ever really been boring in my whole life, but in those short, though beautifully intense two months of apparently perfect life.
I got boring, because he was the only thing I could think, talk, discuss, chat, share about. Nothing else, no me, no friends, no uni, no thing.
Just. Him. And that perfect love bubble.

Bubbles are beautiful, aren’t day? So colourful and magical, they always seem to come from a different, parallel dimension where everything is possible, fairies fly around and dreams come true.
Who doesn’t love bubbles?

But then, bubbles pop.
Dreams fall apart.
Fairies (and fairy tales) are left behind.

That I have learnt. So I am not boring anymore.
And if I (ever) am (or will be?) in love again, I make a point about not leaving the world behind.
Nor my friends.

I am wondering now – should I wish everyone could learn their lesson too?
Or rather hope no one else had ever to face it, and should rather live forever in their pretty love bubble, where fairies are still around, Peter Pan and the Lost Boys are happy and joyful, and dreams are born to be true?

Una casa tanto carina (in Via dei Matti, numero zero)

Quando avrò casa mia, lei sarà delle radici nuove e tutte mie. Non condivise.
Le dovrò ai miei genitori, ma gli si deve sempre la vita comunque, quindi andrà bene così (specie di meta-cordone ombelicale per quasi-tagliare quello originale).

Quando avrò casa mia ci saranno le lucine ovunque (quelle che in inglese chiamano meravigliosamente fairylights). Ci saranno candele e poi lampade belle e le mie piante (due per ora ma poi saranno di più).
Avrò una poltrona gialla di cui nessuno si potrà lamentare, le pareti saranno bianche con qualche tipo di colore, sarà tutto pulito e profumerà di nuovo e forse di lavanda e di vaniglia un po’.
Sarà luminosa ma mai accecante e ci entrerà solo chi voglio io.
Sarà proprio così.

Come quella della canzone che mi cantava mia mamma da bambina, quando ero ancora piccola piccola Sarina.
Una casa che non c’è (ancora) ma che presto, lo so, ci sarà.

To make it feel warm, human and alive (Stockholm)

Stockholm is like Ikea.
Stockholm - View from the Sky View panoramic point

Clean, tidy, transparent, organised, smooth, easy-to, oak rather than dark cherry three wood, kids-sized, safe, modern, advanced, calm, bright, clear.
View from the Royal Palace, Stockholm Contemporary architecture, Stockholm

It’s also pretty enough, and cute enough, and foody enough, and romantic enough. Red roofs, fika, cozy restaurants, cardamom buns and even good coffee shops. Continue reading

Il cuore come misura del tempo

L’invenzione del pendolo determina una svolta nel plurimillenario tentativo di migliorare la misura del tempo.
Per secoli, millenni, anzi a memoria d’uomo, da sempre, la misura di grandi quantità di tempo era stata affidata a quantità sempre crescenti di qualcosa: ad esempio la sabbia nelle clessidre.
Eppure bastava legare una pietra a uno spago, fissarne un estremo a un asse di legno e spingere la pietra.Santa Maria degli Angeli, Roma - Pendolo di Galieo GalileiDa ragazzo, a Pisa, Galilei aveva notato che le oscillazioni dei lampadari nella Cattedrale obbedivano a una incredibile regolarità. E fu infatti uno dei suoi primi lavori quello di costruire un pendolo.
Variando la lunghezza dello spago, Galilei poté costruire un pendolo che batteva come il suo cuore. Se leghiamo un sasso a uno spago lungo un metro e gli diamo un movimento a pendolo, troviamo che il sasso impiega un secondo per andare da un capo all’altro. Ecco perché si dice “batte il secondo”.

Santa Maria degli Angeli, Roma - Ingresso sagrestia, statua di Galieo GalileiGalilei scoprì che, a parità di peso e lunghezza, l’oscillazione dura la stessa quantità di tempo, anche se si usano ampiezze diverse. Ed è così che partendo dal battito del suo cuore – cuore come misura del tempo – Galilei apre all’umanità gli orizzonti nuovi che dovevano portarla ai miliardesimi di secondo.

Santa Maria degli Angeli, Roma - Ingresso sagrestia

Basilica di Santa Maria degli Angeli, Roma